Come una collana (Cleup 2023)


Copertina di Come una collana




 Il pezzo mancante


I tuoi colleghi più simpatici erano Patrizia, Luciano e Pino. Eravate molto diversi, però c’era qualcosa che vi accomunava, una certa visione della vita che non doveva essere solo lavoro, famiglia, necessità. Una parte importante era rappresentata dalla cultura, infatti tu, Luciano e Pino eravate laureati. Patrizia, invece, pur desiderandolo non ce l’aveva fatta anche se è riuscita a diventare ‘brigadiera’, raggiungendo, alla fine, un’ottima posizione lavorativa.

Tu, Patrizia e Luciano lavoravate all’Ufficio Espressi, in piazza Cordusio. Pino qualche gradino più su, all’Ufficio Ispezione, nella Direzione Compartimentale, sempre in piazza Cordusio. Nell’Ufficio Espressi, come in ogni settore della Posta, arrivavano persone da tutta Italia, anche se le regioni più rappresentate erano: Sicilia, Campania, Calabria e Puglia. I ‘nordici’, erano pochi, tu però ti eri integrato perfettamente, e infarcisci ancora il tuo parlare con termini e cadenze prese dai dialetti meridionali. Certe volte mi irrito ma, pensandoci bene, capisco che è un modo di ricordare, in qualche modo commemorare, il nostro periodo più bello, non solo dal punto di vista lavorativo.

Sì, è stato proprio bello, sentire intorno a noi la consistenza di un lavoro umile, ma sicuro, assieme a persone umili ma affettuose. Non tutte, ovviamente, c’era sempre qualcuno di ombroso, scostante, malevolo, presuntuoso e ignorante, però nel complesso Milano ‘elevava’, aiutava ad abbandonare i limiti provinciali, dando una sferzata che spingeva la mente ad aprirsi, a lasciare entrare cose nuove, anche se ciascuno, poi, si ritagliava un modo di vivere adeguato ai propri mezzi, alle possibilità concrete. Era comunque un cambiamento, soprattutto interiore, poiché la metropoli (l’unica secondo me in Italia) obbligava a fare i conti con se stessi, in modo davvero profondo, sostanziale. Per me, per noi è stato così e ne siamo usciti se non migliori, sicuramente più consapevoli.

Con Luciano, Patrizia, Pino non si facevano discorsi complicati (anche se a Luciano piaceva infilarsi in qualche discussione un po’ astratta) eppure si capiva che per ciascuno di voi, di noi, condividere quel luogo, quel tempo, quel pezzo di vita, anche se la partenza era stata casuale, aveva un grande valore, e questa sensazione univa. Ma cos’era questa unione, come la si viveva? Facendo cose normali, semplicissime, al lavoro e fuori, quando ci si trovava per una passeggiata, o per andare a Quarna dove io e te avevamo una casetta.

Sono quei momenti, quei ricordi, quelle immagini che oggi mi sono balzate davanti, e mi hanno fatto sentire, in modo struggente, la mancanza di quel pezzo di vita, non solo indimenticabile, ma davvero fondamentale. Perché il rapporto con Patrizia, Luciano e Pino ha aiutato il nostro legame. Non so dire come, né quanto, ma sento che è stato così. Si è trattato di qualcosa che, attraverso di loro, è entrato in noi e ci ha consentito di renderlo più pieno, più completo.

Adesso che siamo dispersi (Patrizia tornata a Roma, Pino a Grosseto, noi a Treviso, Luciano a Milano), la struggente nostalgia che oggi mi ha afferrato è come lo sfondo di certi quadri che non si nota ma esiste sempre. È sempre lì, cioè dentro di me, anche se non lo percepisco, ma so che non potremmo essere ciò che siamo, poco o niente, senza lo sfondo degli amici più cari, molti dei quali ci hanno già lasciato.

Patrizia, Luciano, Pino, assieme ad alcuni altri colleghi, rappresentano la Milano lavorativa che ho potuto amare. Quando c’erano ancora le mense, tanti settori suddivisi in uffici grandi e piccoli, la Sala Stampa, dove i giornalisti di vari quotidiani ricevevano e smistavano, in tempo reale, i dispacci. C’era il Fuori Sacco, che veniva usato per velocizzare la consegna di messaggi particolari. C’era la Miniera, nel sottosuolo della Stazione Centrale, dove arrivavano i treni coi pacchi da consegnare. C’era, anche, un ufficio a Quarto Oggiaro che voi dell’Ufficio Espressi avevate soprannominato il Bronx. E c’erano degli angolini, in quasi tutti gli uffici di movimento, dove si facevano i turni, in cui si poteva scaldare qualcosa, per fare uno spuntino veloce, se non si era riusciti a pranzare a casa. Io, per esempio, quando facevo il turno 10-16, alla Sette, ogni tanto mi portavo, in un barattolo di vetro, della zuppa di lenticchie.

Insomma, c’era tutto quello che ci ha permesso di sopravvivere, per poter anche vivere.




Recensione di Roberto Masiero


Se qualcuno, come si usa in certi giochi psicologici, domandasse di racchiudere in una sola parola il senso di questa preziosa raccolta di narrazioni, uscita recentemente per l’editore Cleup , credo che userei il termine intimità. L’autrice Michela Gusmeroli ha una lunga, sapiente frequentazione della letteratura che l’accompagna persino inconsapevolmente - fuori da retorica - in ogni atto della propria esistenza. In Come una collana, quasi per apparizione spontanea, emerge quanto sia potente e raccontabile la normalità quotidiana.

La scrittrice ha dei trascorsi considerevoli, specie durante quella che possiamo definire l’epoca, spesso mitizzata in bene o nel male, degli anni ’70 e ‘80 a Milano. Eppure risulta evidente la sua intenzione, deliberata, di attutire i fatti della pura cronaca e dunque della Storia in cui si è trovata a partecipare e che altri, invece, esibirebbero con un certo sussiego da testimoni. Ma Michela Gusmeroli è una narratrice a lento rilascio, se così si può definire, e abborrisce il rischio di reboanti “io c’ero”.

Dunque, in questo libro si affaccia soprattutto una ragazza che, dalla sua amata Valtellina, è approdata nella formidabile metropoli, inesperta ma già scossa da dolorose vicende personali, dapprima frastornata e quasi travolta da una solitudine insanabile che le lascia intravedere ben pochi punti di orientamento. Con fatica imparerà a scegliere le proprie amicizie e con esse a partecipare alla meravigliosa stagione di un femminismo creativo, almeno per lei non livoroso. Ma rimarrebbe deluso, chi si accostasse a questo libro con l’intenzione di ritrovarvi gli echi delle imprese che derivarono dalle fertili analisi politiche dei circoli di autocoscienza, come quello dell’Anabasi a cui aderì l’autrice.

Il mondo mirabile, talvolta enigmatico, sempre inconsueto a cui l’autrice ci consente di accostarci, è un regno costruito sulle emozioni sottili, sulle immagini private, nel puro riscontro di ciò che la realtà provoca nell’animo di una donna sensibile: concreto nella sua evanescenza, ma sempre sospeso in una speciale indeterminatezza allusiva che apre universi interiori.

Sono storie accennate che emergono quasi come degli incipit, eppure in sé conclusi, sapientemente decontestualizzati; talvolta si rivelano pagine pervase di lirismo, o persino crudeli, che scatenano un processo automatico di appartenenza: in questa consonanza si manifesta una singolare bellezza. Episodi minimali: sottintendono sempre un vissuto che, al contrario, si intuisce intenso, di nuovo emotivamente imprescindibile.

Michela Gusmeroli ha affinato un proprio stile connotativo, usa una parola elegante, pregna di sfumature, avvincente nella semplicità di costruzione del fraseggio. Rifugge dalle rappresentazioni immaginifiche eccessive, si nutre quasi soltanto della propria memoria per restituire un distillato di ciò che l’esperienza personale ha provocato: affetti, paura, o anche curioso stupore. Rivivono, come camei, alcune figure che sono state determinanti nella costruzione della sua fertile personalità, estratte senza cronologia da un remoto scrigno della mente, per formare un’originale recherche .

Qui la scrittura non costituisce esclusivamente un mezzo di comunicazione privilegiato o un’attività artistica, assume il ruolo di magnifico portale d’accesso spazio-temporale: estrema possibilità di proiettarsi in un altrove affidabile. Il transito non avviene con espedienti imprevedibili e tecnologici, piuttosto aprendo idealmente la busta di una lettera immaginaria: mirabilmente, prende vita in tutta la sua freschezza e l’intensità vivida un eterno presente della memoria, solo appena intaccato da un tocco di malinconia.

Ed ancora più gratificante è la constatazione, tipica di ogni buona letteratura, che le piccole grandi storie dell’autrice trascendono la privatezza e ci appartengono per analogia: ci scopriamo a provare le medesime inquietudini, certo riferite ad un nostro diverso accaduto ma assai simile negli esiti emotivi. Il filosofo Jung ha descritto bene l’importanza di questo percorso, quando afferma che “Conoscere la propria oscurità è il metodo migliore per affrontare le tenebre degli altri.”

L’autrice ha un rapporto privilegiato con la psicologia e la psicanalisi che ha lungamente approfondito. Ne emerge un lacerto significativo anche nel racconto L’appuntamento: spiazzante per una certa involontaria ambiguità, e a suo modo intrigante. Pare l’incontro semisegreto tra due innamorati e invece si tratta del colloquio pianificato col proprio terapeuta, col quale costruisce un rapporto di singolare intimità, soprattutto ma non esclusivamente intellettuale.

La narrazione di Michela Gusmeroli è ricca di preziosità psicologiche, offerte con intelligente studiata semplicità. Sparse come petali sul terreno di questi racconti, quasi casualmente, cogliamo delle citazioni letterarie inattese, offerte con l’assoluta discrezione di chi non ostenta virtuosismi culturali.

Usando la penna come un pennello o un registratore, l’autrice ci fa percepire anche con i sensi la gradazione rivelatrice o l’assenza della luce, i rumori che segnalano presenze confortanti o minacciose.

Tutto il libro rimane in bilico: tra l’evocazione trasgressiva di una stagione di giovani cuori rivoluzionari protési, se non a cambiare il mondo, almeno a viverlo consapevolmente, e un ritorno comunque incancellabile al passato dal profumo soffuso e oramai smesso di violetta. Si alternano dislocazioni incollocabili temporalmente. Qui con l’allegria delle ragazze, quelle del gruppo le Nemesiache, viene messa in scena una singolare Cenerella per un teatrino d’avanguardia (e tra il pubblico fa capolino un certo Giorgio Gaber), là un’ottantenne seducente poetessa napoletana, praticamente sconosciuta, dispensa versi di struggente malinconia, attraverso le pagine di Terza giovinezza. Qui un’eredità procura dispiaceri, là un paesaggio acquerellato. O un accostamento, deferente, all’altezza di Teresa di Lisieux: a rafforzare la convinzione dell’autrice nella propria vocazione alla scrittura.

Il tono dei racconti sorprende per il clima che li circonda, quasi che il lettore conoscesse già il retroterra di ognuno dei protagonisti e in qualche modo mantenesse con essi rapporti se non di amicizia, almeno di lontana parentela. Pagina per pagina, ci appropriamo delle tracce indelebili di una quotidianità comune, sempre sorprendente, che talvolta ammette la gioia e il dolore, la meraviglia o la disgrazia. Riaffiora alla mente una citazione da Altenberg: “lo squittio di un topo nella trappola è una tragedia terribile! Non aspettate i grandi eventi. Anche il più piccolo evento è un grande evento.”

Le narrazioni dell’autrice Michela Gusmeroli riescono, attraverso una sensibilità raffinata nel modo di porgerle ma spesso affilate nelle conseguenze, a specchiarci da dentro. Riappaiono, in baluginii appena accennati, l’enigmatico, il nero, il lucente che attraversa la vita di ognuno di noi e la rende degna di rappresentazione e di custodia.

 

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