Il piacere
(Dalla seconda sezione di Una sera dolcissima, intitolata In ordine di apparizione)
Il piacere
![]() |
Sul muretto dell'Aprica |
Il noce selvatico, che ombreggiava il terrazzino della zia, faceva delle palline verdi, dure che non maturavano mai e avvizzivano.
Una volta ho provato ad assaggiarne una: mi ha riempito la bocca di un sapore aspro e amarissimo, che mi ha tolto per sempre la voglia di saperne di più.
Quando c’era il vento forte, i rami più vicini picchiavano contro i vetri della porta – toc-toc – come se fuori ci fosse qualcuno che bussava, dopo essere venuto su dal prato, aver attraversato la spianata di cemento con le sdraio ed essere salito dalla scaletta, che conduceva al terrazzino.
Era la scorciatoia che prendeva la nonna al tramonto, quando dal paese giù in basso veniva a portarci il latte appena munto.
La vedevamo camminare lungo l’argine senza riparo del torrente; rasentare la vasca del lavatoio, con la cannella d’acqua sempre corrente; attraversare il ponte di legno sotto la scarpata e rispuntare dal varco sullo stradone.
Dopo aver guardato attentamente a destra e a sinistra, spariva di nuovo sotto il prato in pendenza della zia, finché ricompariva in mezzo all’erba alta salendo lungo il sentiero in diagonale, veloce, sicura, con le sue ciabatte di gomma.
Con quelle ciabatte la nonna andava per i boschi; camminava in mezzo alla terra friabile dei campi; si spostava agilmente sopra i sassi dei sentieri e fra le stoppie taglienti che restavano sui prati, dopo la raccolta del fieno.
Io l’ammiravo molto, senza avere alcuna voglia di imitarla, perché, lì, tutto mi piaceva e non mi piaceva.
Mi piaceva il paese se lo guardava a distanza di sicurezza, dalle finestre della casa della zia, non sentendo l’odore che usciva dalle stalle.
Le case erano poverissime, tutte uguali, salvo qualche differenza nel colore delle finestre e dei balconi, coi muri macchiati dal fumo che usciva dalla cappa dei camini.
Si stringevano le une alle altre e solo chi conosceva bene le famiglie individuava il pezzo di ciascuna.
Il sole faceva brillare i rattoppi di lamiera dei tetti, scaldava il bianco della calce sui muri, ma l’ombra restava cupa e fredda nei cortili, invasi dalle ortiche.
Mi piacevano di più se le guardavo attraverso i veli della pioggia o la nebbia che copriva strato dopo strato il paese, uscendo come una fantastica creatura dalla val Belviso.
Allora, quasi a difendersi dall’attacco, sembravano proprio diventare un corpo unico, che risvegliava la sensazione primordiale del rifugio.
La casa della zia era nuova, rifatta dopo la guerra.
Sopra c’era l’albergo Bellavista e, sotto, il suo appartamento.
In origine era composto di due stanze più la cucina.
Poi, sul davanti, era stata aggiunta una parte allungata, suddivisa in anticamera, soggiorno, un vano attaccato al bagno e, per ultima, molto lontana dall’ingresso, un’altra stanza da letto.
La zia nell’arredarlo si era sbizzarrita con le cose più svariate.
Due poltrone troneggianti e un divano fornito di rotelle.
Vecchie cassapanche ricoperte da teli di cotone a festoni.
Un buffet, con sopra un grandissimo specchio, dalla cornice dorata, inclinato in avanti perché avrebbe toccato il soffitto.
Un lampadario di cristallo, che attirava sulle sue gocce infinite mosche.
Il mio desiderio più grande era stare là dentro a gironzolare fra quegli arredi oppure scendere sulla spianata con le sdraio, a prendere il sole.
Nel bagno, nascosta in un armadietto, c’era un’intera collezione di zoccoli.
Molte fascette di cuoio avevano perso il colore e i chiodini laterali erano arrugginiti, ma indossandoli mi regalavano l’illusione di essere come le villeggianti dell’albergo, che sfoggiavano sensuali piedi abbronzati.
In realtà il rito dell’abbronzatura era irraggiungibile, sia perché resistevo pochissimo al sole, sia perché la zia me ne distoglieva per farmi fare qualche lavoretto.
Come andare a comprare le sigarette.
Il tabacchino che le vendeva si trovava lungo una salita sterrata, che portava verso l’Aprica alta.
Quest’ultima era detta anche “Mavigna”, mentre l’Aprica bassa, dove abitava la nonna, si chiamava “Madonna”.
Nel complesso non era un lungo pezzo di strada, ma pericoloso per le auto che sbucavano all’improvviso da una curva cieca, prima d’imboccare la salita.
Quando pioveva era ancora peggio, ma, proprio allora, la zia restava a corto di sigarette.
Il “tabacchino” era una stanzetta foderata di legno, al pianterreno di una piccola casa.
La porta a vetri, aprendosi, faceva trillare un campanello.
Da una porta interna usciva una donna anziana col fazzoletto in testa che, quando c’era il sole, era spesso al lavatoio.
Allora bisognava aspettare, buone buone, finché qualcuno la andava a chiamare.
Arrivava col catino di alluminio sotto il braccio, e, quando ci vedeva, lo appoggiava fuori su una panca.
Poi girava dietro casa e finalmente ci apriva la porta davanti.
Io e mia sorella ci precipitavamo dentro.
Su un nudo scaffale c’erano i pacchetti verdi delle “Nazionali”; quelli bianchi del tabacco; quelli arancione delle cartine per fare a mano le sigarette.
Più invitanti erano i vasi con le caramelle.
Un intenso aroma dolce-amaro ristagnava sempre nell’aria, ci avvolgeva voluttuosamemte come una carezza, regalando una contentezza, solo passeggera.
Il “tabacchino” segnava l’invisibile confine dell’Aprica bassa: da lì in avanti, la strada sterrata proseguiva dentro una conca, congiungendosi alla fine con lo stradone che portava all’Aprica alta.
Tutta la conca era ricoperta da una distesa di prati smaglianti, dove il sole e l’aria dominavano indisturbati.
Era in quel luogo che la mamma ci raccontava di aver incontrato spesso, da piccola, la propria maestra a spasso con l’ombrellino.
Le due parti dell’Aprica erano molto diverse e la zia era lontana da entrambe.
La sua casa, a metà fra l’una e l’altra, e il suo modo di fare indipendente non l’assimilavano a nessuno.
Il parapetto della curva dove sorgeva l’albergo Bellavista scendeva a strapiombo con un muro altissimo.
Incuranti, sul bordo, c’erano sempre delle persone sedute a chiacchierare o a guardare il passaggio delle auto, che allora era ancora uno spettacolo.
Un albero, più antico e frondoso del noce, riparava l’angolo dal sole.
Le macchine, raggiunto il prato della zia, rallentavano per affrontare il primo curvone; poi si lanciavano, con grande stridio di gomme, verso il secondo tornante, girando intorno ad uno spiazzo adibito un tempo a gioco delle bocce.
Quelle che scendevano dall’Aprica alta, invece, arrivavano in piena corsa, favorite dalla pendenza della strada, e spesso frenavano solo all’ultimo momento.
Quella volta, una perse il controllo e finì dentro il garage aperto dell’albergo.
La mamma raccontava anche di un motociclista che era andato a sbattere contro la porta della casa della zia.
Per questo motivo lei preferiva sempre tenere la porta chiusa a chiave, anche dall’interno.
Dall’entrata si scendeva nell’anticamera con tre gradini.
Lungo i lati c’erano i vasi pieni di fiori che la zia raccoglieva nei prati o rubava, disinvoltamente, dagli orti.
Dalie vellutate, gladioli aristocratici.
Peonie profumate.
Oppure: botton d’oro, non ti scordar di me, margheritine.
In mancanza d’altro, steli duri e spinosi, appena ingentiliti da fragili capocchiette azzurre che si sciupavano subito.
Quando si andava al Belvedere raccoglievamo le ginestre.
Crescevano rigogliose sopra il burrone della Valmana, occupando tutto lo spazio fra la roccia e il ciglio della strada.
Quelle passeggiate erano le mie preferite: con l’eco della montagna a destra, che sosteneva i nostri passi, e la vista del burrone a sinistra, che li rendeva esitanti.
Al Belvedere facevamo una sosta.
Io non mancavo mai di gettare lo sguardo sul fondo spalancato della valle per individuare la sagoma della mia cittadina: anche affogata nella foschia, mi procurava un’insopportabile stretta di nostalgia.
La zia, durante i primi tempi del matrimonio, aveva soggiornato al Belvedere con la suocera, che gestiva là dentro un posto di ristoro ma, a differenza di quella bravissima cuoca, lei non era mai diventata abile in cucina.
Un anno, per alleviarla, la mamma aveva deciso che io e mia sorella consumassimo i pasti al ristorante del Bellavista.
Alla fine, ci raggiunse anche la zia.
I padroni ci avevano assegnato un tavolo nella veranda, che girava intorno alla sala da pranzo.
Il noce lambiva alcune finestre con i rami più alti e ogni tanto uno dei suoi frutti precipitava con grande fracasso sulla tettoia della zia, restando lì a marcire.
Fuori della veranda c’era una terrazza piena di sdraio e ombrelloni che proseguiva dietro l’albergo.
Una parte era coltivata a orto; un’altra lasciata libera per stendere la biancheria.
Più su campi di segale e di patate.
Poi una macchia colma di nocciòli.
Per ultima la roccia viva.
La proprietà della zia risaltava come un piccolo regno, incastonato nel fianco della montagna.
Guardandolo dall’Aprica bassa, dalla casa della nonna, riconoscevo le figurine che si muovevano sulla terrazza; la zia, che saliva e scendeva la scaletta; le schiene e le teste di coloro che sedevano sulla curva e percepivo un’estraneità dolorosa.
Il nonno raccontava che nella macchia c’erano i cervi.
Solo lui li vedeva, perché la montagna non svelava i propri segreti ai villeggianti dell’albergo, che la frequentavano senza amarla sul serio.
A una certa ora, la proprietà della zia entrava nell’ombra.
La luminosità più calda del pomeriggio si concentrava tutta sul paese della “Madonna”.
Risaliva i prati alti delle Foppe.
Scalava le creste ardite del Palabione.
Precipitato nell’ombra, il piccolo regno assumeva proporzioni più ridotte.
A me sembrava una rivincita del paese povero.
La luce, fra le reti degli orti, impreziosiva le ragnatele; ogni filo di fieno rimasto impigliato al passaggio delle gerle.
Le pietre davanti all’abitazione della nonna diventavano bollenti, ma l’acqua nella tazza, che teneva al fresco il burro, si manteneva ghiacciata.
I suoni che uscivano dalle stalle mettevano paura.
Le voci, che scavalcavano le recinzioni, restituivano la calma.
A un certo punto, anche lì, arrivavano le ombre.
Crescevano sul prato a sinistra, camminavano velocemente dentro il sentiero, mentre la fetta di sole che colpiva l’angolo del fienile si assottigliava.
All’improvviso era buio.
Fra le verdure dell’orto.
Sotto la grondaia di fronte.
Sulla soglia ancora tiepida della nonna, dove il sentimento di me, disperso nel giorno, si raccoglieva.
Tornando a casa, eravamo sempre accompagnate fino al ponte.
La luce fioca delle lampadine illuminava appena la strada.
L’acqua del torrente, a ogni passo, ingigantiva il proprio frastuono.
Finita la cena, la veranda dell’albergo si trasformava in ritrovo.
C’era chi giocava a carte; chi sferruzzava; chi chiacchierava, col sottofondo della televisione.
Un passante si affacciava col bicchiere in mano, e restava per qualche attimo appoggiato allo stipite della sala, prima di riprendere il cammino.
In quella sospensione, nell’atteggiamento furtivo, percepivo tutto il fascino della notte, il suo mistero.
Quando la zia ci spediva a letto, insisteva perché spegnessimo subito la luce.
Riguardo a questo era intransigente, e allora non restava che navigare nella mente, fra gli scogli dei pensieri, attendendo d’incontrare il sonno.
Che compariva di colpo in un luogo imprecisato, cadendo come una coltre, dalla quale riemergevo solo al mattino.
All’Aprica alta compravo i primi romanzi veri.
Un giorno, custodito sotto il vetro del banco, lessi un titolo.
La commessa ebbe un attimo di esitazione: – Forse non è adatto.
Era Il Piacere.
Lo divorai in una giornata di pioggia, mentre la zia faceva all’uncinetto una coperta, cercando di stanarmi inutilmente dal suo letto.
L’atmosfera di ciò che leggevo mi restava addosso per un pezzo.
Mi accompagnava nei prati e nei boschi, sigillandomi dentro una bolla.
Rendendomi impenetrabile alla noia, vanificando l’anatema più crudele di mia madre: – Non sai dove buttare le ossa.
Adesso lo sapevo.