Nella mia stanza (commento di Sarina Lamarca)



Presentazione con Sarina



È un testo pieno di scritture dense di esperienze, esperienze personali che non impediscono di trovare similitudini, risonanze, in termini di esistenza, di mondo, di atmosfere vicine e antiche, abitate anche da noi.

Già il titolo Nella mia stanza evoca un luogo familiare, perché ciascuno possiede una stanza, un luogo sicuro dove si sente protetto, libero di posare tutti i bagagli visibili e invisibili, essere quello che è.
Il tema della stanza l’ho incontrato da ragazza leggendo il libro di Sklovskij dal titolo Zoo o lettere non d’amore, del quale ricordo poco ma mi è rimasta impressa la frase: Ogni uomo in ogni città ha diritto ad una stanza, una frase molto bella che non ha bisogno di commenti e che consegno così come è scritta.
Tornando alla stanza di Michela: sono entrata,  mi sono seduta sulla sua sedia e ho guardato il suo mondo, le sue cose. Già nel suo libro Una sera dolcissima Michela descrive una stanza immaginaria, diventata poi reale nel senso che l’ha concretamente realizzata come l’aveva immaginata : col tavolino di sua nonna, la libreria, i libri amati, i ritratti, i quadretti.
Anche qui troviamo una familiarità con le nostre stanze e la prima cosa che mi è venuta in mente è stato il libro di Bodei La vita delle cose. Tutte le cose che abbiamo in casa prima erano merci, sugli scaffali dei negozi ma, una volta entrati dentro le nostre mura, perdono la natura di merci, diventano affetti, ombre, ricordi  e sappiamo quanto è difficile liberarci di essi.
Le cose non sapranno mai che ce ne siamo andati scrive Borges, parlandone come di parti di noi che siamo costretti a lasciare.
Insieme a Michela arriviamo poi a Gorizia, e chi ama la poesia pensa subito a Michaelstaedter; mentre chi si interessa di disagi psichici pensa a Basaglia.
Michela comincia col descrivere l’aria fine di quella città, ripercorre i luoghi che le sono familiari, la sinagoga, la libreria dove sosta volentieri e, alla fine, lascia trasparire il dolore legato al lutto recente di  una persona  cara, dicendo che guardare gli stessi posti dove si sono posati gli occhi di chi non c’è più fa male, fa venire in mente  l’ultima cena
Quando si soffre  punge molto lo sguardo degli altri, perché li immaginiamo felici, mentre nessuno sa cosa ci sia davvero nel cuore di chi sembra felice e che, forse, felice non è.
Emily Dickinson, infatti, ha scritto: Più grande era il peso che portavi più dritta camminavi.  
Le sezioni Dalla parte di lui e Dalla parte di lei sono dedicate a due sguardi diversi: quello maschile e quello femminile.
Michela racconta l’amore con pudore e ritrosia, maneggia la materia come se si dovesse rompere da un momento all’altro, per questo mi è venuta in mente la canzone in dialetto siciliano di Battiato Stranizza d’amuri, una canzone che canta l’amore mentre fuori si spara.
Nelle parole di Michela non c’è la guerra perché non si spara, ma c’è la battaglia, il tormento interiore, la fatica di separare, come scrive lei, l’immaginazione dalla vita reale.
La fragilità dell’amore la conosciamo tutti quando ci innamoriamo, è la paura che tutto possa finire, perché bruciare e insieme durare è sempre difficile. È la paura di finire su un’altra rotaia, rispetto alla direzione sognata.
Nei Piccoli approdi, c’è una poesia, intitolata Amici, in cui mi commuove il verso Ciascuno di noi ritrova il posto delle volte precedenti, che vuol dire fare subito casa a casa degli amici, un altro luogo sicuro dove posare i bagagli. 
Il capitolo Donne è bello inizia con un racconto dedicato alla propria madre, alla propria origine. È un testo delicato, che svela quanto sia complesso il rapporto tra madri e figlie, un’esperienza integralmente femminile.
Recentemente, grazie a Michela, ho potuto riscoprire il mito di Demetra e Persefone, dove il rapporto madre-figlia  si ricompone e  la terra torna a fiorire solo se madre e figlia sanno superare le zone d’ombra,  perdonandosi  a vicenda. 
Chandra Candiani afferma che la meditazione le ha cambiato la vita, e penso che  la scrittura abbia cambiato la vita anche a Michela, benché la meditazione, come la scrittura, sovente, non tolga un briciolo di dolore.
Ma Michela non vuole anestetizzare il suo dolore perché, scrive Antonietta Selvaggio nella prefazione a Una sera dolcissima, non è interessata al mito del superamento del dolore traumatico,  come se il dolore le permettesse, misteriosamente, una postura in cui mantiene meglio l’equilibrio. Forse quello che conta è sottrarre al dolore l’ultima parola perché, anche se è inestirpabile dalla esperienza umana, è sempre possibile farlo convivere con la bellezza, con momenti di gioia, col calore dell’amicizia e anche con  qualche giorno di festa.
A volte siamo spinti dal vento del dolore, a volte dal vento della speranza, l’importante è  approdare e trovare  porti aperti…


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