Elia
Fotogrammi
Elia viene a prendermi col “Ciao” di suo fratello.
Sento il rumore del motore.
Attendo il suono del campanello.
Quando apro la porta, lo trovo sull’ultimo gradino.
La faccia sorridente, il piede pronto a ripartire.
Aggrappata a lui, sul predellino, attraverso la città deserta.
Gli studenti come me sono a casa.
Gli operai e gli impiegati, che frequentano l’albergo dei miei, stanno ancora mangiando.
La pausa di mezzogiorno smorza tutto.
Per noi è l’inizio.
Sull’argine, dopo la Piazza Vecchia, un soffio gagliardo c’investe.
È l’annuncio della gola che si spalanca in fondo.
La chiamano ‘Cassandre’, ma niente mi ha avvertito di quello che sarebbe successo.
A destra, c’è il “Ritrovo Operaio”.
A sinistra, oltre l’alveo che spumeggia, l’edificio in rovina di una distilleria.
La strada prosegue dritta, finché si torce bruscamente e sale a serpentina, rasentando la fabbrica dove lavora il padre di Elia.
È una zona della città che conosco pochissimo.
Qualche passeggiata da piccola con una zia.
La raccolta delle genziane e delle primule, sulla balza che sovrasta il torrente.
Adesso questa frequentazione così assidua.
Una leggera pendenza immette nel “Villaggio Operaio”.
Quattro palazzine intorno ad una centralina.
L’acqua del torrente entra ed esce dalle turbine.
Si distende in una conca dove una passerella antica scavalca i gorghi più temibili.
Raggiungiamo l’ultima casa, all’imbocco della gola.
Saliamo al terzo piano.
Elia apre la porta: - Sono io.
La madre malata di cuore, sdraiata a letto nella sua stanza, mi saluta con simpatia.
Vicino a lei c’è spesso la figlia più giovane, che assomiglia ad Elia.
La camera dopo è divisa da un tramezzo.
Di qua il letto del fratello più vecchio.
Di là, quello di Elia e dell’altro fratello col quale, per ragioni politiche, non va d’accordo.
Per fortuna, è spesso via.
Appeso al divisorio c’è il “Manifesto della Pace”.
Lo chiamo così perché riporta una frase:
“La pace è ciascun uomo seduto sotto la sua vite e sotto il suo fico”.
Entriamo nel secondo vano, più riparato.
Davanti ai letti c’è la scrivania.
È qui che Elia studia per preparare la tesi in architettura.
A destra, la porta del tramezzo.
A sinistra, la finestra.
Mi siedo sul davanzale inondato di sole.
I folti capelli raccolti in cima.
-Come la corona di una regina-, mi ha detto un tizio una volta.
Elia indossa la camicia azzurra che esalta il colore variegato dei suoi occhi.
Il ciuffo scuro ricade sulla fronte.
La barba accarezza il mento e le guance.
La pelle liscia, ambrata.
I polsi ben modellati.
Le mani con lunghe dita affusolate.
Tempo di letizia.
Di pienezza.
Elia mi chiama “redesa”, che in dialetto vuol dire “ragazza”, facendomi percepire, senza artifici, la sua tenerezza.
Per me, lui sarà sempre: “L’amore è arrivato”.
Scritto di getto in un’agenda.
Sulle pareti ci sono i suoi quadri.
Un autoritratto, con gli occhi enormi, sbarrati.
Capelli blu.
Una Crocifissione in bianco e nero, con due figure prone ai piedi del legno.
Dopo qualche tempo si aggiunge un nudo di donna arancione, che resterà incompiuto.
Lungo un fianco delle “Cassandre” avviene la nostra iniziazione.
Anche per Elia è la prima volta: pur essendo più grande di me ha aspettato.
Questa partenza comune sarà una specie di viatico.
Dietro gli alberi dei ragazzini ridacchiano.
Per questo, da lì in avanti, preferiamo la sua stanza.
Coi soldi delle prime supplenze Elia si compra una macchina usata.
Una Seicento, color caffelatte.
Cominciano i nostri giri per la valle.
Luoghi consacrati e sconsacrati.
Piacevolmente dimenticati.
La nostra terra è inesauribile nell’offrirci riparo fra i suoi tesori.
Nel rendere più vasto il nostro piacere.
Elia non trascura gli impegni, gli amici con cui ci incontriamo ogni sera.
Sono parte integrante del nostro rapporto, cresciuto a poco a poco in mezzo a loro.
Ad un certo punto, subentrano altre persone.
Tipi sprezzanti, “duri” come si dice nel gergo di quegli anni.
Elia inizia a frequentarli.
Forse è un salto necessario, un limite da superare.
A me pare solo una minaccia, che ci può separare.
Per la prima volta litighiamo.
Com’è lacerante!
L’ansia di perderlo mi fa dire cose che non voglio.
Elia si allontana.
Sparisce dentro il portone di casa.
Attendo ancora un momento, poi mi alzo e in un lampo lo raggiungo sulle scale.
Tutto torna come prima.
Elia continua a frequentare “quelli”.
Una sera decidono di recarsi da un medico che abita a metà montagna.
Ex partigiano, anarchico.
Prima di lasciarmi Elia mi dice: - Ci vediamo come il solito, domani.
Domani.
Fino a ora è stato facile.
Uguale a oggi.
Come ieri.
Non c’è mai stato bisogno di nominarlo, sottolinearlo.
Aspettarlo, con questo senso di timore.
Chi bussa?
Chi mi chiama?
Sono ancora a letto, cullata dal dormiveglia.
Mi sembra di riconoscere la voce di uno di ‘quelli’.
Come ha fatto ad entrare?
Stupida porta sempre aperta.
Mi rannicchio sotto le coperte, senza fiatare.
Qualche minuto dopo la porta si riapre, anzi si spalanca.
È mia madre.
Ha attraversato la strada che divide l’albergo dal nostro appartamento.
Pochi metri, che si sono già trasformati in uno spartiacque.
- Alzati, presto. Elia ha avuto un incidente.
Oddio!
Non trovo più me stessa.
Non è vero, sto sognando.
Posso risvegliarmi.
Il mattino è calmo.
Il pomeriggio intatto.
Elia mi aspetta, come sempre.
Elia, invece, è steso su una barella.
Una suora cretina mi rimprovera la scollatura della maglietta.
Ho indossato la prima, mentre cercavo il prima.
La pelle nuda, troppo bianca, simile alle piastrelle dell’ ospedale.
Elia non sembra riconoscermi.
Mi chiede come ad un’estranea: - Chi mi è venuto addosso?
Sono le prime parole che raccolgo dall’estremità del letto.
Non avranno mai risposta.
Mentre tento di avvicinarmi per capire meglio, qualcuno s’intromette.
Dice che Elia, dopo il colpo, ha vomitato.
Non vedo vomito, né sangue.
Nessun altro segno sulla superficie del corpo.
Il male si annida sotto.
È una specie di iceberg.
Dalla vita in giù, infatti, Elia non sente più niente.
Ha perso completamente la sensibilità e l’uso delle gambe.
Reagisce solo il pollice del piede con un riflesso involontario, giudicato subito molto male.
Il trauma ha sconvolto anche la coscienza.
Nella mente di Elia c’è un buco nero, che ha risucchiato tutta la dinamica dell’incidente e un lungo lasso di tempo precedente.
Da quando ha lasciato la pizzeria assieme agli altri ed è partito per raggiungere il paesino.
Due macchine.
Una davanti.
La sua dietro.
Si chiama “amnesia retroattiva”.
Anche il passeggero, accanto ad Elia, non ricorda nulla.
Lo raggiungo in un’altra camera.
Ha solo qualche costola rotta.
Lo interrogo senza speranza.
So già che non sa niente.
Eppure non ci credo.
Non ci credo!
C’è molta confusione.
Un incredibile via vai di persone.
Facce familiari che diventano anonime.
Facce nuove che sembrano conosciute.
Nemmeno io ho più la mente a posto.
Per non parlare dei medici, degli infermieri, che vanno e vengono continuamente, senza aprire bocca.
Al centro del vortice il nostro passato.
Ancora saldo, a portata di mano.
Basta compiere un mezzo giro e ritrovo la giornata di ieri.
Sempre viva, fresca.
Ma l’oggi incalza.
La spinge via.
Uno di “quelli”, laureato in medicina, si è accorto per primo.
Improvvisamente non ha più visto i fari della Seicento nello specchietto.
Si è fermato sul ciglio della strada, ad attendere.
Invano.
Allora è tornato indietro, fino alla curva.
Maledetta strada!
Eppure non è pericolosa.
È solo panoramica.
La conosco bene perché con Elia l’ho percorsa infinite volte, durante i nostri giri.
Più avanti, si raggiunge un punto isolato dove sorge un convento abbandonato.
Un luogo speciale, in cui avevamo immaginato di vivere in tanti.
Che strazio!
Torno indietro, ma non riesco a stanare la curva.
Si nasconde in modo subdolo, come la ferita.
In basso il corso sinuoso del fiume, che attraversa la valle nella parte più ampia, tutta la bellezza della nostra terra dispiegata.
Come ha potuto tradirci così crudelmente?
Elia si riprende.
Non mostra di essere preoccupato.
Si rivolge agli altri con battute spiritose.
La tempra ammirevole del suo carattere lo fa tornare uguale.
Viene messo in una stanza singola, anche se è figlio di un operaio.
Per merito di chi?
Del via vai, immagino, dentro cui intravedo qualche personaggio importante.
Penso a questo invece che alla cosa più evidente: la gravità della sua condizione.
Salta fuori anche un lettino ortopedico, che può essere girato senza spostare il malato, per evitargli ogni pressione, ogni attrito.
Quando è messo a pancia in giù, con la faccia sospesa dentro un buco, Elia non riesce a nascondere il disagio.
Si sente costretto in una posizione umiliante.
Qual è dunque la diagnosi?
Frattura vertebrale.
Dove?
In un punto ancora imprecisato.
Medici e infermieri continuano a restare abbottonati.
Ma io insisto: - Cosa si può fare?
Prima di tutto deve smaltire la botta.
Poi bisognerà fare una puntura lombare.
Analizzare se c’è stata fuoriuscita del midollo spinale.
Una procedura che mi sembra troppo vaga, tanto per prendere tempo.
I medici, tuttavia, si rendono disponibili a un consulto.
Si potrebbe tentare di operare, con un bravo neurochirurgo.
Però vogliono parlare con la famiglia.
L’unico in grado di farlo è il fratello con cui Elia ha un rapporto difficile.
Non vedo di buon occhio il suo intervento, ma mi devo rassegnare.
Vorrei almeno affiancargli un amico fidato.
Ce ne sono diversi ma non riesco a raggiungerli in tempo.
Si offre il laureato che quella notte ha soccorso per primo Elia.
Bisogna riconoscere che è stato in gamba.
Si è calato di sotto e, trovando Elia sbalzato fuori della macchina, ha capito che non andava toccato incautamente.
Sopra, appena sporgente, la curva senza parapetto di protezione.
Elia guida perfettamente.
È abile e prudente.
Com’è potuto succedere?
La piccola utilitaria in salita non era certo in grado di correre.
Ripercorro, un’altra volta, il tragitto, la strada come doveva essere di notte, più sgombra, ma sempre insidiosa.
Rispunta la domanda che Elia ha pronunciato appena l’ho visto.
Formulata in maniera diversa, rimane la stessa:
- Chi mi ha abbagliato?
Comincia a diffondersi uno strano panico.
Un carosello di dubbi, di sospetti.
Gli argini del buon senso vacillano.
Forse in pizzeria, prima di partire, hanno somministrato ad Elia qualcosa.
Chi mette in giro questa inquietante notizia?
Chi alimenta questa storia pazzesca?
Altre persone, apparse all’improvviso, che confabulano negli angoli e poi lanciano accuse, travestite da domande.
Dov’è finita la macchina?
Perché non è stata ancora ispezionata?
Come mai l’ambulanza ha tardato ad arrivare sul posto dell’incidente?
Perché il ferito è stato messo in un reparto poco adatto?
La mia assistenza dovrebbe trasformarsi in un’ossessiva vigilanza.
Mi sento goffa e patetica nel fronteggiare i fantasmi.
In ogni modo mi prodigo più che posso per evitare a Elia una svista, un’omissione che potrebbe essergli fatale nelle sue condizioni.
Non voluta, o forse davvero auspicata, da qualcuno.
Chi è Elia?
Uno degli esponenti più rappresentativi del Movimento.
Un leader, molto amato dagli studenti.
La sua stanza diventa il centro di un pellegrinaggio commovente.
A ogni ora c’è qualcuno di loro che staziona in corridoio.
Io ho perso completamente la nozione del tempo.
Fra il passato e il presente si è aperto il baratro.
I ricordi si sono frantumati in tanti pezzi scollegati.
E’ impossibile tenerli insieme.
Un’amnesia emotiva m’impedisce di percepire altro.
Sono sempre vicino a Elia, ma la nostra intimità è svanita.
Ha imboccato una china precipitosa in fondo alla quale compare solo il nulla.
Non una luce, nessuna speranza di ritrovarla intatta, come prima.
L’amore resiste, ma non serve a parlare coi medici, a farmi prendere in considerazione da loro.
In realtà non hanno più niente da dire.
Il consulto, avvenuto a un’ora inconsueta, di notte, ha stabilito che la paralisi è irreversibile.
L’operazione è stata accantonata.
Se qualcosa andava fatto non è più il momento.
Lo spiraglio di un qualche miracolo si è richiuso.
Fuori dell’ospedale non ci si arrende.
I confronti, le discussioni continuano.
Coinvolgono altri medici, che gratuitamente si siedono intorno al tavolo di un bar con gli amici più cari.
Ci sono anch’io.
Per l’ennesima volta ascolto quel linguaggio spersonalizzato, infarcito di termini tecnici che ormai sono diventati abituali, ma non per questo meno repellenti, in mezzo ai quali cerco inutilmente il mio Elia.
Alla fine emerge l’ipotesi di trasferirlo in un altro ospedale più attrezzato, magari all’estero, dove ci sarebbero terapie innovative.
Viene indicata la Svizzera.
Poi la Romania.
Per questa impensabile destinazione, si potrebbe interpellare un tipo iscritto a un grosso partito politico, che simpatizza col Movimento.
Costui, un pomeriggio, mi ferma sul marciapiede, sotto un semaforo.
Ha l’aria aggressiva. Mi accusa.
- Insomma, bisogna intervenire.
Che cosa si sta aspettando?
Rimango allibita.
Non sto forse tentando di fare il possibile?
Quando arrivo in ospedale, trovo il coraggio di affrontare Elia.
Gli parlo con fermezza.
- Sei tu che devi decidere il tuo destino, tenere in mano la tua vita.
Parole ragionevoli, sacrosante che potrebbero allontanare certe interferenze.
Restituire a noi stessi ciò che siamo stati e continuiamo a essere, nonostante la disgrazia.
Ma inattuabili.
Infatti, si mettono in moto forze invisibili.
La famiglia convoca uno zio prete.
Non ho mai saputo che esistesse.
Una vera potenza.
Si allea col fratello e sbaraglia ogni altra iniziativa.
Viene deciso il trasferimento in un altro ospedale.
Una scelta che intuisco sbagliata.
Una soluzione di comodo per sospendere il via vai, spegnere i riflettori su una vicenda che sta diventando scabrosa.
Mi sembra di vedere la scena.
La madre e il padre che non parlano, intimiditi dalla presenza del prete.
L’unica che vorrebbe opporsi è la sorella, minuscola eroina, al pari di me perdente.
È passato più di un mese dall’incidente.
La stagione è entrata definitivamente nell’estate.
Esplosione di giornate luminose.
Notti stellate.
Una cornice struggente, che per me racchiude solo polvere e sofferenza.
Partiamo in ambulanza una mattina.
Io davanti, come una passeggera qualsiasi.
Tengo gli occhi puntati sulla strada, le curve che si aprono docilmente.
Ogni metro uno strappo.
A destra, un grande specchio d’acqua indifferente.
Elia è dietro, col fratello e lo zio.
Lo scudo della famiglia ci separa, e non lo difende.
Man mano che ci avviciniamo alla meta il paesaggio cambia.
Diventa piatto, sbiadito.
Il nostro mondo è sparito.
Per ultime le vette più alte, la forza e la grazia con cui reggono il cielo.
Ormai precipitato, affogato, dentro una vampa uniforme.
Accecante.
Raggiungiamo il nuovo ospedale nelle ore più calde.
Un’entrata monumentale ci risucchia e ci scarica davanti a un padiglione.
Quello dei paraplegici.
Per la prima volta vedo Elia piangere.
Siamo parcheggiati in corridoio, mentre preparano il letto.
La barella rasoterra.
Cerco di infondergli coraggio, ma a mia volta sono smarrita.
Da qui in avanti saremo soli.
Una solitudine che ho desiderato e che ora mi fa paura.
Un uomo anziano ci passa accanto in carrozzella.
Lo sgomento aumenta nella stanza, quando vedo il maniglione sopra il letto.
Nessuna via di scampo, l’ultimo verdetto.
Adesso il tempo per stare con Elia è brevissimo.
Rigidamente incastrato negli orari.
Continuamente interrotto dagli infermieri, che sembrano secondini.
Lunghissimo, interminabile il tragitto che devo compiere, sul tram numero quattro, per raggiungere l’ospedale dalla casa degli amici che mi ospitano.
In questo ammasso di cose gigantesche, ci sono almeno loro.
L’angoscia, tuttavia, ha fatto il nido sotto la pelle.
Si è intrufolata in ogni fibra, in ogni cellula.
Ha occupato stabilmente l’enorme vuoto lasciato dalla vita precedente.
Al posto della dolcezza, la sua asprezza.
Il momento peggiore è quando sono all’inizio del viale, catapultata fuori dalla frenata del tram.
Guardo lontano l’entrata dell’ospedale, un grande arco, di fronte al quale mi sento incapace.
Che cosa faccio?
Devo arrivare e superarlo.
Attraversare l’entrata e poi girare a destra.
Quando sono nel padiglione respiro meglio.
Comunque sia, rivedrò Elia.
Nella stanza con lui c’è un giovane che proviene dalla Sicilia.
È lì da un anno e ha la schiena piena di piaghe.
Nonostante ciò è allegro, incoraggiante.
Anche Elia si dà da fare.
Si solleva col maniglione, vuole fare ginnastica a tutti i costi per irrobustire il tronco, la parte del corpo su cui potrà contare.
L’altra continua a restare immobile, immersa nella paralisi.
A guardarla non appare diversa.
È solo nuda, sempre disponibile a qualche manipolazione.
Sfregamenti con alcol e sapone per indurire la pelle.
Cambio del catetere.
Il pene inerte è adagiato sull’inguine.
Un bulbo senza linfa.
Qualcuno, non io, l’ha visto ancora rizzarsi, dopo l’incidente, per un altro di quegli automatismi che mimano tragicamente ciò che non è più possibile.
Fra Elia e il vicino è nata un’ottima intesa.
Parlano di tutto, perfino di politica.
Elia è più preparato ma il siciliano lo segue.
Cercano di combattere l’inerzia delle gambe con la vivacità delle idee.
Un giorno, sono passate due settimane, appena entro nella stanza il vicino mi fa un cenno preoccupato.
Guardo Elia che ha il viso contratto.
- Dove ti fa male?
- Qui, a respirare.
- Che cosa dicono?
- Nulla.
Voglio consultare subito il dottore.
Esco in corridoio e spalanco una porta a vetri.
Mi trovo davanti uno stanzone vuoto che sembra una palestra.
Finalmente spunta un’infermiera.
- Il primario arriva più tardi, ma non sarà ora di visita.
Figurarsi se m’importa!
Decido di appostarmi nel giardino.
Un labirinto di edifici smunti, pochi alberi stentati.
Tengo d’occhio il padiglione per scattare in avanti appena sarà l’ora e bloccare il dottore.
L’angoscia ha raggiunto livelli di guardia.
Schiaccia il cervello, dilatando la sensazione di pericolo imminente.
L’uomo in camice bianco mi guarda con alterigia.
Siamo all’inizio del corridoio.
Il tramonto estivo è appena cominciato.
Lingue di sole rossastre mi abbracciano, sconsolate.
- Chi è lei?
- La fidanzata di…
Mi decido ad usare questa parola convenzionale che non dice la verità del nostro legame.
- È da alcuni giorni che sente male a respirare. Perché non fate una radiografia?
- Stia attenta a come parla, altrimenti la caccio via.
Con riluttanza apre un registro, insegue una riga.
- Il numero…stanotte ha sputato sangue.
È in corso un’embolia.
Un’embolia?
Il battito del cuore accelera, senza pompare energia.
Mi aggrappo all’idea di tornare a casa, sollecitare l’interessamento di una dottoressa che Elia ha conosciuto durante un’azione di volontariato presso l’Ospedale Psichiatrico.
Prima però devo passare a salutarlo.
Cerco di ricompormi, per non spaventarlo.
Non l’ho mai visto così tardi.
La luce artificiale rende più livida la faccia, alterata dalla smorfia del dolore.
Quando gli dico che cosa ho deciso di fare si rianima.
Recupera un po’ d’allegria.
L’occhio indagatore, tuttavia, non mi lascia, vorrebbe carpire ciò che so annidato nelle sue arterie.
Fuori non reggo l’impatto della sera.
La conclusione, per gli altri, di una giornata tranquilla.
Tenui emozioni sopra un lago di disperazione.
Perché a noi sta succedendo questo?
Sul tram la gente mi guarda.
Sono sicura che legge la nostra tragedia.
Mi sento come un libro aperto, che non ha né capo né coda.
Troppo giovane e di colpo troppo vecchia.
Non abbandonerò mai Elia.
Assieme costruiremo un’altra esistenza.
Potremo farlo anche se resta in carrozzella.
Anche se ha dovuto rinunciare alla nomina in Algeria, giunta dopo l’incidente.
- Tu intanto studi - aveva detto - poi mi raggiungi.
Prendo il primo treno.
Finalmente giungo a casa, ma fatico a riconoscerla.
Nessuna presenza mi consola.
Sono cambiata.
Inavvicinabile, alienata.
Non sarò più quella di prima.
Cerco la dottoressa che accetta di partire con me il giorno dopo.
Alle sette, mentre mi sto alzando, squilla il telefono.
È la voce fredda della dottoressa che mi annuncia: - Preparati, Elia sta male.
No, è già morto.
Il sole attraversa le persiane.
Le sue lame mi spingono dentro un’orribile giornata.
Ho il corpo intorpidito.
La mente lucida, lucidissima.
Non ce la faccio ad andare sola.
Mi viene in mente un’amica che abita di sopra.
Buona, gentile, affettuosa.
Mi appoggio a lei come a una sorella.
Inizia così l’ultima discesa.
Questa volta sono dietro.
Davanti la dottoressa.
Sollevo la questione della negligenza, il mancato intervento dell’ospedale.
La dottoressa, forse ferita nell’orgoglio professionale, reagisce malissimo:
- Stai zitta.
Le lacrime compresse trovano così un’uscita.
Rivedo Elia nella camera mortuaria.
Ancora disteso su una barella.
Coperto da un lenzuolo fino in cima.
Intorno ai piedi una catena con il numero.
La bella bocca carnosa.
L’elegante naso aquilino.
Mi chino perché sotto le palpebre, non del tutto abbassate, mi sembra di scorgere un chiarore.
Poi mi accorgo dell’errore.
È solo il riverbero della pupilla vuota.
Vorrei fargli una carezza.
Dove?
Esco.
In un angolo riconosco il padre.
L’aria dimessa, imbarazzata.
Non riesco a tendergli nemmeno la mano.
Il vicino di letto mi accoglie con affetto.
Vuole raccontarmi che cosa è successo.
- Ha chiesto la colazione poi si è sentito male.
È stato velocissimo, non ha sofferto.
Mi dice di guardare nel cassetto del comodino.
C’è un foglio con la scrittura di Elia.
Poche righe.
Il suo testamento.
- Quando ti vedo mi viene da piangere.
Non mi capita con nessun altro.
Sei l’unica
(L’ho scritto a Treviso, quasi di getto, dando finalmente la stura
a un dolore che, per anni, è rimasto ghiacciato dentro.
Fa parte
della terza sezione di Una sera dolcissima, assieme ad altri
racconti, riuniti sotto il titolo In ordine di apparizione
(p. 182).
Citato da Antonietta nella sua Introduzione.)
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