Don Abramo (o della mia ri-unificazione).

Don Abramo è indissolubilmente legato al periodo più bello della mia vita: la gioventù, il Sessantotto, Elia. Fu lui a farmelo conoscere, portandomi una sera nell’alloggio che don Abramo occupava presso l’Angelo Custode. 
Si chiamava così un luogo della Sondrio vecchia, nucleo originario della cittadina. Lo attraversavo per andare a scuola, raggiungere il liceo classico che sorgeva un po’ elevato, sopra una piccola rocca. All’inizio dell’anno scolastico ’68–’69 , Elia era stato assunto come supplente di storia dell’arte nel mio liceo. Il nostro primo contatto fu un confronto sul ‘genio’, qualità che lui possedeva abbondantemente a livello comunicativo. Di lì a poco, infatti, mi trovai ad ascoltarlo fuori del liceo, in una stanzetta al pianterreno dell’edificio delle suore che ospitavano don Abramo. 
Da quel momento il ‘fuoriscuola’, se così posso dire, divenne molto più formativo della scuola vera. Gli incontri con Elia e altri universitari, compresi alcuni insegnanti che si erano votati al Movimento Studentesco, concretizzarono finalmente quel bisogno di espansione, di novità che sentivo urgere dentro. Di tutto ciò Elia fu l’apice, ‘l’apice del vertice’, come diceva scherzosamente Abramo. Il ‘don’ era sparito dal nostro linguaggio, senza annullare il rispetto. Lasciava, anzi, trasparire meglio l’eccezionalità di Abramo, il suo essere contemporaneamente Maestro e Amico, anche se per me fu necessario del tempo per raggiungere questa intimità, essendo fra le più giovani che lo frequentavano. La prima volta che lo vidi rimasi sorpresa di riconoscere in lui il prete che vedevo, ogni tanto, transitare per le strade della mia cittadina, con un’aria umile, quasi dimessa. Non era certo uno dei preti in vista della Parrocchia che io, del resto, praticavo poco. 
Non facevo parte di alcun gruppo cattolico, nemmeno della Gioventù Studentesca che sarebbe poi confluita nel Movimento Studentesco. Non ero particolarmente religiosa, pur avendo trascorso le elementari e le medie nel collegio di Santa Croce, a Sondrio. La mia vita esternamente appariva formata ma, internamente, era una specie di tabula rasa. L’incontro con Elia, col Movimento la stavano riempiendo. Assieme al carisma di Abramo, la sua capacità di accogliere e riunire, in quella stanza al secondo piano dell’edificio delle suore, persone di tutti i tipi: giovani e meno giovani, provenienti da Sondrio e da lontano, religiose e non, tutte orientate alla ricerca del bene. Abramo era una guida speciale. In uno dei suoi primi testi intitolato Vivi di fronte alla Bibbia, quel ‘vivi’ che, a una prima lettura, sembra un comando, dispiega poi tutt’altro significato. Vuol dire essere vivi, cioè vigili, ricettivi, e anche critici, nei confronti di ogni parola, perfino di Dio. “Frugatore di angoli nascosti”: così, mi pare di ricordare, lo definì il suo amico Turoldo. 
E mi sembra di vederlo intento a estrarre le frasi dei suoi testi, fulminee e, allo stesso tempo, calibratissime, capaci di effetti a lungo termine, come un meccanismo che si apre quando si è in grado di ricevere ciò che contiene. Sul grande tavolo rettangolare, c’erano una bottiglia di grappa col rametto di ruta e la scatoletta coi tronchetti dolci-amari delle Rìcola. La sua mano spingeva delicatamente l’una o l’altra verso l’ospite di turno. Il suo viso sorrideva, pregustando l’avvio dei discorsi, dentro cui ci si avventurava senza preconcetti, né autoritarismi. 
C’era chi si fermava poco, chi fino a quando il campanello annunciava la cena. Ogni tanto, Abramo si sganciava dalle suore e si univa a un gruppetto formatosi istantaneamente, secondo i misteriosi canoni di una meravigliosa, irripetibile, spontaneità. Ricordo una volta in cui, prima di uscire, mise sul giradischi La guerra di Piero. Come stava bene la musica di De Andrè in quel luogo, come si spandeva armoniosamente nella mia mente, nel mio cuore, ampliando i confini della cittadina, del mio piccolo mondo, legando fra loro il passato e il futuro, attraverso il presente. 
Un attimo perfetto, mai perso! Come Teresa di Lisieux, il libro di Abramo che mi ha commosso di più, che rappresenta per me il suo ‘apice del vertice’. Quando me ne sono andata da Sondrio, dopo la tragica morte di Elia, non ho più frequentato Abramo per molto tempo. Tornavo a Sondrio raramente, furtivamente, troppo grande il mio spaesamento, non riuscivo a parlarne con nessuno. Nemmeno con Abramo che, successivamente, mi disse di aver mancato con me, di non essere stato capace di svolgere la sua funzione pastorale. E io mi sentivo davvero come una pecora smarrita. Ma i tempi erano profondamente mutati per tutti. 
Quando ripresi a frequentarlo, Abramo occupava un altro alloggio delle suore di Mese, all’Ala Materna. Gli stessi arredi, lo stesso tavolo, però molte meno persone sedute intorno. Soltanto alla messa di Natale, che lui celebrava a mezzanotte nella cappella annessa, rivedevo qualcuno e qualcuna del Sessantotto. La mia vita continuava a rimanere spezzata in un punto sostanziale, mentre quella degli altri era andata avanti in maniera più normale. Neppure Abramo aveva il potere di procurarmi il mastice necessario a richiudere lo squarcio. A poco a poco, tuttavia, ho sentito che da lì poteva scaturire qualcosa. Feci leggere ad Abramo le mie prime scritture, così solitarie, introverse. Lui le accolse con estremo riguardo, senza fare commenti. Solo una volta accennò al mio ‘genio’. 
Ancora questa parola, troppo carica, insondabile, che non chiudeva il cerchio, ne apriva un altro.

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